lunedì 30 aprile 2012

I lampascioni



Sono il prodotto dell’estate, ideale per le diete dell’ultimo momento, quando la prova costume diventa un pensiero ricorrente. I lampascioni, conosciuti soprattutto nel Sud Italia, sono piccole cipolline dalle fortissime
proprietà depurative, che stimolano la colecisti e puliscono l’intestino. Inoltre, grazie al loro sapore delicato, vengono utilizzati per realizzare gustose ricette, rigorosamente prive di grassi. Secondo antiche credenze, i lampascioni avrebbero anche dei poteri afrodisiaci. Forse è proprio per questo motivo che ne va matto anche lo showman foggiano, Renzo Arbore. 
Giro d’olio e La bella contadina sono due dei pochi coltivatori di questi prodotti, rimasti nella provincia di Foggia.

A quanto pare, questi bulbi stimolavano talmente il desiderio sessuale che, già ai tempi degli antichi romani i cittadini ne facevano man bassa. Ne nacque anche un mercato parallelo, tanto che lo stesso Diocleziano nel 301 d.C. ne impose il prezzo ai venditori. I lampascioni non potevano mancare sulle tavole nuziali, come buon augurio per gli sposi. Oggi il costo della loro lavorazione è molto alto perché i cipollotti possono essere trattati solo a mano, ma sono una prelibatezza che vale tutto il proprio prezzo.

venerdì 27 aprile 2012

Il crac dell'euro




Domande quotidiane:
 
1. Che cosa succederebbe ai mutui nel caso in cui una moneta (ad esempio la dracma) uscisse dell'euro?
In realtà si possono fare solo scenari, perché l'ipotesi di una fuoruscita unilaterale dall'euro non è formalmente prevista. L'unica modalità che appare possibile è quella di uscire prima dall'Unione Europea, facendo saltare così uno dei requisiti indispensabili per stare nel club dell'euro. Ma anche questa risposta in realtà non è sufficiente, perché l'articolo 50 del Trattato di Lisbona, dice: «L'Unione negozia e conclude, con lo Stato che intende recedere, un accordo volto a definire le modalità del recesso». Significa che bisognerà per forza trovare un accordo soddisfacente per tutti. La prima conseguenza riguarderebbe naturalmente i prestiti-casa. Su due fronti: il ritorno alla valuta nazionale e i tassi d'interesse.
2 È ipotizzabile che avvenga l'inverso di quello che è successo con il changeover del 2001? Undici anni fa si sono trasformati tutti i contratti da dracma in euro a un cambio prefissato. Bisognerà fare il movimento inverso, riconvertirli nella vecchia moneta nazionale?
Sì, è uno scenario, anche se in realtà l'analogia non è del tutto convincente: allora si era passati da una valuta che veniva abbandonata a una nuova valuta; oggi il passaggio avverrebbe partendo da una valuta che invece rimane sul mercato. E comunque se si adoperasse il tasso di cambio del 2001 (340,75 dracme per un euro) la valuta certo non passerebbe la prova dei mercati, perché il lunedì successivo all'annuncio la quotazione crollerebbe. C'è chi ipotizza un passaggio con una svalutazione preventiva molto forte; un recente studio Ubs ad esempio parla del 50% come minimo.
3 In uno scenario di contratti integralmente ridenominati in dracme che ne sarebbe di chi ha un mutuo?
Dipende dal tipo di mutuo: se si tratta di un finanziamento a tasso fisso, da un punto di vista formale non cambierebbe nulla; nei fatti, siccome verrebbero riconvertiti anche gli stipendi e l'inflazione renderà il costo delle merci primarie assai più care, la rata del mutuo diventerà ugualmente meno sostenibile perché andrà a incidere su un reddito che ha un potere d'acquisto molto più ridotto di oggi. Sui mutui a tasso variabile l'effetto sarebbe peggiore perché oltre a quanto detto prima la ridenominazione in dracme porterà all'abbandono dell'Euribor (il tasso a breve sull'euro) che sarà sostituito dal tasso corrispondente in valuta locale con effetti molto pesanti sulle rate. In tabella abbiamo provato a calcolare come varierebbe la rata di un prestito indicizzato con il nuovo tasso, ipotizzando che si posizioni tra il 4 e il 15%. Il passaggio al 10% (scenario nemmeno troppo pessimista) comporterebbe nell'immediato il raddoppio della rata mensile. Tutto questo senza contare che si aprirebbe per le banche elleniche uno scenario davvero fosco.
4 Perché l'«effetto domino» sulle banche?
Ce lo spiega il responsabile dei mutui di una primaria banca italiana: «Le banche che stipulano un mutuo raccolgono i fondi sui mercati internazionali assumendo impegni che, anche se assunti da una banca greca, rimangono in euro e che non potrebbero in nessun modo venire onorati con una dracma svalutata e con una raccolta della clientela ridotta ai minimi termini. L'unico modo per evitare di onorare l'impegno è che lo Stato nazionalizzi gli istituti: se lo Stato non paga perché è fallito, non devono pagare nemmeno le banche, che però non potrebbero più operare sui mercati esteri. A livello internazionale si innescherebbe un effetto domino su tutto il sistema dell'euro. A livello locale, inoltre, gli istituti avrebbe un altro gravissimo danno, perché il valore delle garanzie ipotecarie crollerebbe e aumenterebbe il numero di debitori che non pagano».
5 E se invece i mutui rimanessero denominati in euro?
Ci sarebbe un piccolo sollievo per le banche ma sarebbero guai anche per chi ha un mutuo a tasso fisso, perché il suo finanziamento si trasformerebbe in mutuo in valuta e il debito aumenterebbe in proporzione a quanto si svaluta la dracma rispetto all'euro.

mercoledì 25 aprile 2012

In ricordo di Veronelli




A  quasi otto anni da quel giorno nero d’autunno, il 29 novembre 2004, le profezie di Luigi Veronelli si sono avverate. Il grande archivio con i suoi scritti è stato finalmente sistemato dopo la morte del cultore di vini, filosofo del piacere e polemista per mezzo secolo. In quelle pagine che arrivano dalla sua casa «alta su Bergamo alta» ci sono insieme il presagio e il percorso per il Rinascimento del vino italiano. Partendo dai vignaioli, dai contadini, dagli uomini e le donne («amiche paritarie» le chiamava decenni prima delle quote rosa) con l’anima avvolta dalla terra. Gian Arturo Rota, che di Veronelli è stato collaboratore per vent’anni, si è fatto largo nel labirinto di appunti e bozze di libri e tracce di articoli. E partendo da lì ha ideato, con la famiglia Veronelli, il primo convegno sul pensiero del gastronomo che forse più di ogni altro ha influenzato la cultura alimentare del Novecento in Italia.
L’incontro «di riflessione sulle sue geniali e profonde intuizioni utili a capire il presente e progettare il futuro» si terrà il 24 maggio all’università di Scienze gastronomiche a Pollenzo. Carlo Petrini, fondatore di Slow food, sarà il padrone di casa.
Negli anni Cinquanta (e pure dopo), prima di diventare famoso anche grazie a una indimenticata trasmissione pop-intellettuale di educazione alimentare sulla Rai con Ave Ninchi,  A tavola alle 7,  l’Italia del vino appariva a Veronelli un triste impero per industriali. Vedeva «l’ignobile dottrina dei vini di massa, gli impianti stesi per produzioni mostruose e le vuote sfilate di cisterne inox». Ispirandosi ai francesi, coinvolse i piccoli spronandoli a valorizzare i vitigni autoctoni, a usare i carati (le botticelle che i francesi chiamano barriques), a ridurre le rese in vigna per aumentare la qualità.
«Era l’unico modo, ed ora si è capito che aveva ragione per cancellare — così ripeteva — lo svantaggio sui «nos amis de France, dovuto alla mancanza di legislatori validi e di una scuola enologica capace di avvertire il futuro». Insegnò a non usare tutta l’uva assieme, ma a separare quella dei vigneti migliori, in grado di dare caratteristiche diverse al vino. Sono nati così i primi cru italiani, negli anni Settanta. E le industrie si sono adeguate, creando le piramidi della qualità, il vino venduto a milioni di bottiglie c’è ancora, ma accanto
Ha avuto la capacità, prima ancora intellettuale che organolettica, di parlare ai contadini», ragiona Carlo Petrini, ricordando l’ultima telefonata con Veronelli. «Stavo organizzando il primo Terra Madre, l’evento dedicato ai contadini del mondo. Mi chiamò e disse: tu hai realizzato il mio sogno. Per tutta la vita ha insistito sulla forza del legame di un contadino con la sua terra per ottenere il Rinascimento del vino». ci sono i cru. Epiche le sue battaglie: quella per l’«obbligo delle etichette veritiere, pena confisca». O quella per il «prezzo sorgente», ovvero l’indicazione nell’etichetta del costo base del vino in modo da impedire rincari eccessivi ai ristoratori. Facendo capire, all’Italia delle damigiane e delle caraffe d’osteria, che il vino di qualità si deve pagare, ma evitando speculazioni. E poi l’invenzione del federalismo della tutela alimentare, con le De.Co., le denominazioni comunali decise paese per paese. E ancora il lungo impegno per l’olio extravergine italiano. Battaglie mai per ragioni di mercato, sempre per scelta intellettuale, «libertaria» diceva, perché «il vino è un valore reale che ti dà l’irreale, adatto agli individui e non alle masse». E lo faceva capire con il suo stile di scrittura (emulato da mille seguaci) dotto, a tratti arcaico, ricco di citazioni di poeti del Duecento, santi, pensieri kantiani o hegeliani. Era capace di sentire in un Brunello «l’abbraccio di una sinfonia di Mahler», ma aveva abolito i voti dalle sue Guide provandone «disgusto».
«Un’idea del vino e del cibo come forma d’arte e creatività — sintetizza Sandro Chia, scultore della Transavanguardia e produttore di Brunello di Montalcino —, la sua era una filosofia dell’essere».
«Era il poeta del vino mondiale — dice Josko Gravner, il vignaiolo del Collio friulano che ha sostituito le botti con le sue leggendarie anfore —. Venne a trovarmi nel 1982, ero un contadino sconosciuto, nessuno badava a quelli come me. S’informò sulla mia Ribolla, disse di continuare perché quel vitigno aveva mille anni di storia qui. Ha dato la forza ai piccoli di crescere, seguendo terra e natura e non le mode».
Ora quei vignaioli scovati ed elevati da Veronelli, «duri, lividi, con le toppe al culo, umiliati», vendono in tutto il mondo. Come quelli del Nerello Mascalese della cui scoperta scrisse in una delle ultime apparizioni della rubrica «Agrodolce» sul Corriere. Otto anni dopo quel giorno nero d’autunno, Antonio Galloni, il delfino di Robert Parker di Wine Advocate, dice che quel Nerello è il futuro migliore dell’Italia del vino. L’ultimo omaggio alle profezie di Veronelli.

lunedì 23 aprile 2012

Come salvare le lingue sul web



Esite una lingua parlata solo da dodici persone. O meglio: esiste una lingua, antichissima e senza legami con altre lingue esistenti, che combatte l'estinzione con le armi della globalizzazione. Si tratta del Ktunaxa, parlato da alcune tribù di nativi che abitano nell'America nord-occidentale, tra il Montana, l'Idaho e la Columbia Britannica.

Secondo un censimento del 1990 i parlanti Ktunaxa erano poco meno di 400, ma i dodici che ne conservano strutture e lessico intatti appartengono soprattutto alla vecchia generazione. E nessun altro al mondo è capace di parlarlo. Il rischio è quello che, come successo al Kamassino (parlato fino a 30 anni fa in Russia, sui monti Urali) e a tante altre, la lingua possa estinguersi con la morte degli ultimi anziani.

Alcuni membri della comunità hanno così deciso di utilizzare la tecnologia per combattere questo pericolo. Stanno caricando su internet registrazioni, giochi interattivi per bambini e altro materiale trascritto da rendere fruibile a chiunque voglia imparare il Ktunaxa. Ci sono addirittura corsi di laurea online per gli adulti desiderosi di riscoprirlo.

La soluzione sembra delle più sensate visto che i giovani membri della comunità sono tutti nativi digitali. Grazie alla Rete poi, il materiale caricato è accessibile a chiunque, in qualunque posto si trovi. "Se non avessimo agito - spiega Marisa Philips, una delle 'conservatrici' - avremmo rischiato di perdere, non solo la nostra lingua, ma anche la nostra identità di nazione e popolo Ktunaxa".

La comunità, composta da circa 2000 persone, cerca così di riuscire dove altri hanno fallito. Quella zona d'America è stata infatti la tomba di numerose altre lingue indigene. "Cerchiamo di essere all'avanguardia e di pensare alle possibili cose da fare nel futuro per continuare a preservare la nostra cultura", afferma Don Maki, il direttore del consiglio nazionale.

Esiste il Ktunaxa non è l'unica lingua che vede nella tecnologia una via di salvezza dall'estinzione. Esiste un'applicazione per iPhone che insegna la pronuncia delle parole in Tuvan, lingua di una popolazione nomade che vive tra Mongolia e Siberia. Per il Siletz Dee-ni (degli indiani d'America dell'Oregon) e per altre sette lingue in pericolo di estinzione, David Harrison, professore di linguistica allo Swarthmore College in Pennsylvania , con la collaborazione dei madrelingua ha prodotto e pubblicato sul web otto dizionari 'parlanti'.

Secondo la rivista National Geographic ogni 14 giorni muore una lingua. Tra cent'anni potrebbero essere scomparse la metà delle oltre 7000 lingue parlate oggi nel mondo, con la conseguente perdita di migliaia di culture. La tecnologia, accusata di uccidere le diversità, forse è l'unico modo per salvarle.

domenica 15 aprile 2012

Dormire in ufficio



Quando si parla di dormire sul posto di lavoro, la reazione è sempre di scherno: roba da fannulloni. Un punto di vista diffuso non solo in Italia, dove il sonnellino pomeridiano richiama vecchie memorie contadine o i luoghi comuni sugli impiegati statali. Il più importante blog tecnologico americano, TechCrunch, si è appena fatto gioco di una mail interna, con cui il mese scorso il gigante dei media Aol indicava come una «delle più alte priorità» della sua presidente Arianna Huffington la creazione di «stanze per la pennichella» in ogni sede della compagnia. «Questa è la Silicon Valley», dove si lavora «16 ore al giorno», la gente «non sta mai senza fare niente» e «non abbiamo affatto bisogno di stanze del riposino», ha scritto la blogger Alexia Tsotsis.
Niente di più sbagliato: un numero crescente di ricerche rivela i benefici delle pennichelle per aumentare la produttività sul lavoro, e infatti si moltiplicano le aziende che offrono ai loro dipendenti la possibilità di riposare in ufficio.
Anche in Silicon Valley: oltre ad Aol, i giganti Cisco Systems e Google. E poi: Nike, Procter & Gamble, Zappos, Rodale, il New York Times, Ben & Jerry’s e Citibank. Secondo un sondaggio della National Sleep Foundation statunitense, nel 2011 il 34% degli americani poteva fare la pennichella al lavoro, mentre il 16% lavorava in aziende che hanno stanze per il relax. Il fenomeno si è così diffuso che ha dato origine a un’industria specializzata. La Metronaps, con sede a New York e Copenaghen, produce una serie di strumenti specifici per il riposo pomeridiano («nap» in inglese significa sonnellino).
Il prodotto di punta è l’EnergyPod, una speciale poltrona in vendita a 8.995 euro più costi di installazione. «Sono progettate per dormire in ufficio, con tanto di schermo regolabile per isolare la parte superiore del corpo», dice Christopher Lindholst, amministratore delegato di Metronaps. Nei corridoi della casa madre di Google a Mountain View, si vedono spesso le gambe di qualche dipendente spuntare da queste poltrone. «Si possono prenotare, esattamente come una sala conferenze, e usare al bisogno — spiega Simona Panzeri di Google Italia —. Lavoriamo su progetti, non a orari fissi, e favorire i sonnellini è uno dei modi dell’azienda di rispettare i ritmi personali dei lavoratori».
In realtà dormire in ufficio rende anche più produttivi. Una ricerca del 2010 dell’Università di Berkeley ha dimostrato che una pennichella di 90 minuti aumenta enormemente la capacità di apprendimento e rafforza la memoria a breve termine. L’autore dello studio, lo psicologo Matthew Walker, ha sottoposto a test di apprendimento due distinti gruppi di studenti. Dopo due ore uno dei gruppi ha schiacciato un pisolino, l’altro è rimasto sveglio. Al successivo test, i risultati sono cambiati moltissimo: quelli che avevano riposato hanno ottenuto risultati migliori, non solo di coloro che erano rimasti svegli, ma anche rispetto alle loro prime prove.
Secondo Walker questo dimostra che dormire ripulisce la memoria a breve termine e crea lo spazio nel cervello per ricordare nuovi dati.
Un’altra serie di esperimenti simili, compiuti nel 2008 all’Università di Haifa, in Israele, aveva già mostrato i benefici della pennichella per quella a lungo termine: si trattava di eseguire una sequenza di attività che richiedeva appunto l’uso della memoria «lunga». Anche in questo caso il gruppo che ha dormito ha avuto prestazioni migliori.
Ma se dal punto di vista scientifico è chiaro che «dormirci su» aiuta a ricordare e a svolgere attività intellettuali complesse, perdura lo stereotipo delle pennichella come forma di pigrizia. Soprattutto in Italia. Le multinazionali che all’estero favoriscono i riposini dei loro dipendenti, spesso non prevedono la stessa possibilità nel nostro Paese. Succede con Cisco Italia, la cinese Huawei, Citibank. Fanno eccezione due colossi dell’informatica: Google e Microsoft. Quest’ultima ha fatto costruire nella nuova sede inaugurata l’estate scorsa un’apposita «nap room», una stanza per i pisolini, molto usata dai dipendenti. «Da noi i lavoratori possono organizzare autonomamente la giornata lavorativa: quello che conta è che realizzino gli obiettivi a cui stanno lavorando. Se possono seguire i loro ritmi, i risultati sono migliori», spiega il direttore Risorse Umane Luca Valerii.
Anche aziende piccole, informali e particolarmente dinamiche hanno un atteggiamento aperto nei confronti della pennichella in ufficio: «Io l’ho sempre consentita, purché non intralci altre attività e si tratti di un pisolino di mezz’ora, non di mezza giornata», dice Alessandro Nasini, fondatore della romana Maple, una società per la progettazione di prodotti e servizi. Uno che vuole cambiare i luoghi comuni sul riposo è Gabriele Corradi, fondatore della palestra «ReGym San Babila», nel centro di Milano. «Integriamo l’attività fisica tradizionale con tecniche di rilassamento: spesso le sedute con i nostri personal trainer si concludono con 15-20 minuti di sonno».

mercoledì 11 aprile 2012

Maschi imbranati



Perché gli uomini s’imbranano davanti a una donna e non succede il contrario? Lo spiega uno studio dell’Università olandese di Radboud pubblicato su Archives of Sexual Behaviour: quando un uomo incontra una donna per lui minimamente appetibile disperde buona parte delle sue risorse mentali a fantasticare se, come e quando potrebbe portarsela a letto e ciò compromette le sue performance cognitive perché gli fa sprecare un sacco di energie mentali nell’intento di farle buona impressione. Questa reazione, che nel linguaggio popolare viene definita da cascamorto, s’innesca anche se l’incontro non è reale, ma solo telefonico oppure virtuale via internet, su Facebook o su Twitter.
Se poi l’uomo sa già prima di doversi incontrare con una donna il calo di prestazioni cognitive si verifica addirittura prima dell’incontro e negli annali della cinematografia non si contano le scene alla Woody Allen di appuntamenti galanti in cui il protagonista raggiunge livelli di imbranataggine impensabili. E la cosa interessante è che questo fenomeno si verifica indipendentemente dal fatto che l’uomo sappia o meno se la donna che è destinato a incontrare è bella o brutta, cioè, in termini psicosociali, se sia o meno una partner adatta all’accoppiamento. Il semplice fatto che si tratti di una donna è sufficiente, un risultato che tutto sommato va ad alimentare tante vecchie battute su quello che davvero interessa agli uomini.
L'ESPERIMENTO - I ricercatori olandesi hanno confermato in laboratorio la serie di studi che avevano finora portato a queste conclusioni con un semplice esperimento fatto con studenti eterosessuali di entrambi i sessi. Un ragazzo veniva sottoposto al famoso test di Stroop, lo psicologo che l’ha inventato settant’anni fa per valutare la concentrazione: vengono presentati rapidamente cartoncini con le parole dei colori (rosso, verde, giallo, ecc.), ma fra il colore e la parola non c’è mai corrispondenza. Chi fa il test deve ripetere ad alta voce ciò che legge, ma se non sta più che attento le sue aree cerebrali visive e quelle del linguaggio vanno in conflitto e commette errori. In questo caso l’esame era reso ancor più difficile dalla velocità con cui le parole erano presentate perché ormai al posto dei cartoncini di Stroop si usa lo schermo di un computer.
ERRORI A RAFFICA - Nell’esperimento tutto filava liscio finché al ragazzo non veniva fatto credere che lo stava osservando una ragazza attraverso una webcam: da quel momento commetteva molti più errori di quando invece gli dicevano che l’osservatore era del suo stesso sesso. La stessa cosa succedeva anche se gli veniva solo detto che la sua prova sarebbe stata visionata da una ragazza che lui non poteva vedere: cominciava a sbagliare ancor prima dell’attivazione della webcam, che in realtà non era mai accesa in nessuna delle due prove, ma tanto bastava per mandarlo in confusione. E anche in questo caso, se gli veniva fatto credere che a osservarlo sarebbe stato un altro ragazzo non si metteva a sbagliare. Che le sue capacità fossero comunque integre veniva confermato dal fatto che se gli dicevano di fare il test senza nessun presunto osservatore non commetteva errori. Quando le stesse prove venivano fatte con una ragazza le sue prestazioni non subivano alcuna influenza sia se le dicevano che la stava osservando un ragazzo o una ragazza sia quando le facevano credere che uno dei due l’avrebbe osservata.
Le donne sembrano immuni a questo fenomeno perché hanno un atteggiamento mentale opposto a quello dei maschietti: il loro primo pensiero infatti è quello di approfondire la conoscenza del maschio che incontrano per decidere con calma se è davvero qualcuno di cui fidarsi, cosicché la loro concentrazione mentale addirittura aumenta. In qualche incontro anche la donna s’imbrana come i maschi, ma per lo più questo accade quando è stata colpita dal famoso colpo di fulmine che secondo un altro studio dell’Università di Syracuse pubblicato su Psychology & Sociology altera le aree cognitive cerebrali di maschi e femmine allo stesso modo nell’arco di 5 secondi esercitando un’azione neurochimica simile a quella indotta dalla cocaina.