mercoledì 21 dicembre 2011

C'era una volta a Natale un fiocco

(foto da internet)









Se non vi potete esimere dal fare regalini natalizi, vi troverete davanti a un'altra novità. La crisi ha, infatti, fatto un'altra vittima. Non certo illustre, ma in realtà, tutti le volevano bene, perché estremamente delicata. Oggi, con l'ultimo post dell'anno i chiodi annunciano che si è spenta, circondata da un medio disinteresse, la confezione regalo.
Se la chiedete alle commesse di «Zara», vi guarderanno con occhi sbarrati: «Cosa?». In qualche negozio  infilano un foglio di carta scintillante nella busta, con tante scuse: «Spiacenti, non abbiamo tempo». Chissà, forse non ne hanno neanche voglia. In Italia sta succedendo a Milano, che, sebbene non rappresenti tutto il paese, è un termometro importante dell'aria che tira.

(foto da internet)
Da Abercrombie, tempio modaiolo dei teenager, non si commuovono alla richiesta. Al Disney Store, o si esce con il sacchetto standard o, se si vuole un allegro contenitore di cartone, lo si paga due euro e mezzo. Da Biffi, punto di riferimento delle signore-bene: busta bianca, semplice, neanche un accenno natalizio. Da Drumohr, tanto cashmere con nastrino rosso. 
E, badate bene, se andate a comprare un biglietto natalizio, vi diranno che per le ditte è lavoro sprecato, quindi fate gli auguri via web (che, con i prezzi che girano, conviene davvero!)

Eppure non sono così lontani gli anni in cui il pacchetto era quasi più importante del regalo. In Italia La Rinascente era mitica: fiocchi, campanelle, rametti di agrifoglio e una commessa che arricciava il nastro. Ora il nastro è stato tagliato (sostituito dall'adesivo) e al posto della carta metallizzata molti usano quella beige da pacco, in nome di un elegante minimalismo.

(foto da internet)

Insomma l'austerity ha colpito e ognuno ha la sua strategia. C'è chi si sottrae: «Oops, ho appena finito le confezioni regalo», chi, per lo shopper dove infilare una bottiglia di vino, chiede un euro e 50, chi è si organizzato con le associazioni benefiche (Feltrinelli-«ManiTese) e chi giura di aver ridotto il packaging per nobili questioni di sostenibilità ambientale.
Forse si resta delusi, ma la verità, però, è che è difficile obiettare.


La confezione è un lusso, anzi diventa un micro-business e nei punti vendita «Tutto a un euro» o «Tutto a 50 cent», gli unici veramente affollati, si trova quello che gli altri non danno più gratis: scatole, fiocchetti, coroncine, adesivi ecc. E si moltiplicano i siti di consigli per il bricolage regalistico.


(foto da internet)




Saro Trovato, mood maker (una specie di opinionista) dell'agenzia «Found!» sostiene che «per Natale il 90% del regalo è la confezione: questione di atmosfera. Deve essere creativo e ben fatto, quanto più è basso l'investimento. I commercianti che pensano di tagliare una spesa superflua, sbagliano. Impoveriscono l'oggetto e alla fine uccidono il business. I conti devono tornare, ma questa forma di risparmio fa male all'economia. Non è minimalismo, è una tristezza dickensiana».


Certo, ci sono lodevoli eccezioni, ma, in tema di mega-trend, è meglio prepararsi all'autarchia. Si può provare, anche se impacchettatori professionisti non ci si improvvisa, ma, forse, se si comincia subito, l'anno prossimo saremo tutti bravissimi.



Buon Natale e Buon anno! 


P.S.: Ci ricollegheremo il 9 gennaio.



lunedì 19 dicembre 2011

La coda alla vaccinara



(foto da internet)

La coda alla vaccinara è una ricetta nata nel cuore di Roma, nel rione Regola, dove, una volta, abitavano i vaccinari, e cioè i macellai. Questo piatto tipico della cucina romana è considerato il re del quinto quarto, ovvero quel che rimane della bestia vaccina dopo che sono state vendute ai benestanti le parti pregiate. Del quinto quarto fanno parte la coda, la trippa, la cosiddetta pajata (l'intestino tenue), il cuore, la milza, e tutte le frattaglie.

Esistono due versioni principali del piatto in questione che si differenziano soprattutto nella parte finale della preparazione, dove in una viene preparata una salsa a base di cacao amaro, pinoli e uva passa, mentre nell'altra no.

La prima versione è quella indicata anche da Ada Boni nel suo libro La cucina romana (1929). L'autrice, propone, con la stessa carne, un primo piatto con il brodo ottenuto lessando la coda, e poi un secondo di carne costituito dalla coda alla vaccinara vera e propria.



(foto da internet)



La coda, quindi, veniva inizialmente fatta lessare, in modo tale che il brodo si potesse utilizzare per altri piatti. La carne, al contempo, continuava la cottura in un tegame dove era stato fatto soffriggere un trito di aglio, cipolla, prezzemolo, carota, lardo e una fettina di prosciutto. Quindi veniva aggiunta un po' di salsa di pomodoro, parte del brodo e il sedano sbollentato. La cottura proseguiva fino a che la salsa non si era ristretta.

L'altra versione è un piatto più ricco, che si poteva trovare più nelle trattorie e nei ristoranti. L'elaborazione richiede molto tempo. Si prepara così: si prende una coda di bue e si fa spurgare per circa 4 ore in acqua fredda. Si taglia a tocchi, e la si mette a rosolare con un trito di lardo (o guanciale) e olio. Appena rosolata si aggiunge una cipolla tritata con due spicchi d'aglio, dei chiodi di garofano, sale e pepe. Si fa evaporare l'acqua buttata fuori dalla coda, si sfuma con del vino bianco secco si fa cuocere per un quarto d'ora coperta. Quindi si aggiunge un chilo di pomodori pelati a pezzi.

Si lascia cuocere per circa un'ora, poi si allunga la salsa con dell'acqua calda fino a coprire la coda, si incoperchia nuovamente e si prosegue la cottura per altre 3 ore. Nel frattempo si lessa del sedano. Appena pronto, si scola e si mette in un tegame con un po' di sugo della coda, i pinoli, l'uva passa e il cacao amaro. Questa salsa va fatta bollire per qualche minuto e poi va versata sulla coda al momento di servire.

Il ristorante della capitale che ha saputo mantenere lo spirito di questo piatto povero, è, senza dubbio, Er Checchino, nel quartiere di Testaccio. L'indirizzo è il seguente: Via di Monte Testaccio 30.

Buon appetito!

venerdì 16 dicembre 2011

Un Natale da baratto

(foto da internet)


Come scampare al periodo più dispendioso dell’anno? Sarà una domanda passata per la testa a più di una persona, e sembra di difficilissima risposta. Infatti, con il Natale che si avvicina, e insieme alla festività tutto il merchandising che alimenta la rincorsa all’ultimo regalo da mettere sotto l’albero, vale la pena soffermarsi su modi alternativi di prepararsi a vivere il periodo più dispendioso dell’anno.

In tempi di crisi stanno tornando sempre più alla ribalta concetti come baratto e condivisione. Ci si scambia di tutto, dai vestiti e accessori alle case di vacanza, si mettono in ballo beni di ogni tipo - dalle bici alle automobili con le fortunate soluzioni del car e bike sharing, ma anche libri (bookswap) e persino storie da raccontare con la formula Speed Date.

(foto da internet)

Un modo potrebbe essere quello di liberarsi dagli oggetti che non si utilizzano più, per esempio, quelli che vengono accumulati nelle cantine senza nemmeno rendersene conto, carichi non solo di polvere, ma anche di ricordi o storie da raccontare.

Per esempio a Roma lo scorso 11 dicembre c’è stata un’asta alquanto originale: Storie & Cose, Cibi all'Incanto”, progetto di Donne di Carta. Si possono portare libri, mobili, soprammobili, dischi, vestiti, scatole, lampade, gioielli e soprattutto parole e racconti, perché questa è un’asta non di oggetti morti in disuso ma di storie vissute.

E chissà che non si possa trovare proprio qui il regalo perfetto da donare la fatidica data del 25 dicembre!


(foto da internet)


L’incontro prevede uno scambio-acquisto di cose, partendo dall’idea che ci si deve portare dietro anche la storia dell’oggetto di cui ci si vuole disfare affinché l'eventuale acquirente possa diventarne un intimo custode.
E non mancano i cibi: in fondo anche preparare un cibo è raccontare una storia: quella del tempo dedicato, del gusto condiviso e dei ricordi. Insomma, c’è spazio per tutto, anche per prodotti unici fatti a mano e, in questo caso, sono gli artigiani a raccontare qualcosa sulle loro creazioni.

mercoledì 14 dicembre 2011

Un ciulin che parla la rella


(foto da internet)




A Torino hanno pavimentato le vie del centro storico. Ad Aosta la piazza della città. E poi Francia, Austria, fino ad arrivare in America. Sono i «ciulin» di Graglia, un paese di 1600 abitanti sull’alta collina biellese della Valle Elvo. Nella professione di selciatori erano maestri riconosciuti fin dal’Ottocento. Si tratta di un’arte antica con le sue regole e addirittura la sua lingua: la «rella», indispensabile per non svelare i segreti del mestiere. Un idioma che non si poteva imparare sui libri, bensì solo lavorando. Sono passati più di duecento anni e della «rella» rimane un solo testimone.




(foto da internet)





Pierino Milano, 70 anni, custode solitario del dialetto più misterioso d'Italia, quello dei selciatori biellesi, abita in una baita (ovviamente in pietra) in frazione Castagneto di Muzzano, a due passi dal capoluogo della vallata. «Sono andato a lavorare come selciatore all'età di 23 anni con quelli di Graglia. Dovevamo realizzare la strada della piazza del municipio e subito mi sono accorto che questi si rivolgevano a me in una lingua mai sentita. Più chiedevo spiegazioni e più ridevano. Era la prima volta che sentivo parlare la rella». Pierino ha fatto di necessità virtù. Scherno dopo scherno, quelle parole tanto ostiche quanto divertenti gli sono entrate nel sangue fino a diventare la sua seconda lingua. «Una volta che la conosci non la dimentichi più - continua -. Lavorando in giro, la paura più grande era che ti rubassero il lavoro. Dovevamo avere un nostro codice». Sembra addirittura una lingua musicale: la strada diventa «carvera», (casa delle ruote), il vento è chiamato «fuilan» (ciò che porta via le foglie), fino al maiale, che diventa il «cardinal».

(foto da internet)

Una vita dura quella sulle montagne di Muzzano, dove le strade non sono asfaltate e dove la rete idrica è collegata da poco. meno male che ci sono ancora persone che vivono in montagna e che permettono che zone simili non si spopolino. Una volta erano 800, ora se ne contano sette. E tra queste ancora si può vantare un “ciulin” in grado di parlare la “rella”: un patrimonio davvero prezioso e da custodire gelosamente.

lunedì 12 dicembre 2011

Festa di Natale e concorso gastronomico



(foto da internet)

Cari chiodini vicini e lontani,

il dipartimento d'italiano della Eoi Sagunt ha organizzato degli eventi legati alle festività natalizie che si avvicinano.
Martedì 20 dicembre, alle ore 11, faremo visita ai nostri amici chiodini (piccini, piccini) della scuola elementare Santa Anna di Quartell.
Ci saranno molte canzoni natalizie, la tombola, le storie della befane, le filastrocche, ricchi premi e cotillon...
Ah, stiamo cercando delle volontarie (solo ragazze, per favore!) per mascherarsi da Befana!

(foto da internet)

Nella nostra scuola, invece, mercoledì 21 dicembre, alle ore 18, nell'aula 22, si terrà l'ormai classica tombolata e un concorso gastronomico con ricchi premi.
Il concorso in questione vuole far conoscere ai nostri allievi la cucina italiana.


(foto da internet)

Le regole del concorso sono facilissime:
  1. scegliete una ricetta italiana (se non avete a disposizione dei libri e/o delle riviste, vi consigliamo di dare un'occhiata a questi siti: Giallozafferano e Incucina.tv);
  2. la ricetta non deve essere necessariamente legate al Natale;
  3. preparate la vostra ricetta a casa;
  4. portate il piatto che avete cucinato a scuola;
  5. una giuria composta da buongustai italiani sceglierà le tre migliori ricette;
  6. i fortunati vincitori riceveranno, sul podio, tre premi (e poi cotillon...)!

Vi aspettiamo!



venerdì 9 dicembre 2011

L'ocarinamania

(foto da internet)


L'ocarina
è uno strumento a fiato di forma globulare allungata generalmente costruito in terracotta. Strumenti di questo tipo, e di diverse forme, sono nati e si sono sviluppati in numerose civiltà antiche. Vi sono presenze simili nelle culture mesoamericane e cinesi. In Europa, questo tipo di strumento è stato considerato, fino al XIX secolo, poco più che un giocattolo: dei piccoli oggetti artistici o semplici fischietti che potevano modulare pochi suoni.

L'ocarina standard impiegata nella musica occidentale fu inventata in Italia, a Budrio, durante la metà del XIX secolo da Giuseppe Donati. La sua forma ovoidale allungata ricorda il profilo di un'oca privata della testa: il nome infatti deriva da ucarina, diminutivo di oca in dialetto bolognese.

Or bene, tenetevi forte, secondo una direttiva del Ministero della Cultura giapponese, suonare l’ocarina aiuta (attenzione!) le casalinghe a vincere la depressione, a riscoprire interessi e a tenere in forma la mente. Un rimedio immeditato, affidato a uno dei manufatti più preziosi dell'artigianato italiano, un piccolo strumento a fiato di terracotta che solo pochi, rari maestri di Budrio, producono.

L’ocarina, amata da Giuseppe Verdi come da Louis Bacalov, compositore del tema di Ultimo tango a Parigi, che per ocarina ha scritto una partitura, qui fa parte del panorama. C’è un museo con i pezzi più belli, e ad aprile, nei giorni del festival che le viene dedicato, le vie di Budrio si affollano di cinesi, giapponesi, taiwanesi, coreani, che arrivano per imparare le tecniche di costruzione di questo strumento. Il quale, tra l’altro, è ora anche un’applicazione per iPhone, dal suono che non dispiace nemmeno ai puristi del paese, caldo quasi quanto quello degli originali in terracotta.

Proprio grazie all’irruzione della modernità, oggi l’ocarina è uno degli strumenti più amati in Oriente. Ha iniziato la Corea, che lo ha adottato nelle scuole dell’obbligo, dove ha sostituito il flauto, e adesso tutti i bambini di quel Paese hanno le loro ore obbligatorie di ocarina. Poi è arrivato il Giappone con l’invito ministeriale che ne sottolinea la funzione terapeutica, infine la Cina, dove l'ocarinamania dilaga, con impensabili riflessi sulla produzione.

Perché, naturalmente, per far fronte a tale richiesta gli anziani esperti di Budrio, che creano pezzi unici impiegando tempo e fatica non bastano più. Così la Corea ha lanciato sul mercato l’ocarina di plastica, seriale, economica, indistruttibile e, a sentire i musicisti della tradizione, con un suono accettabile. Molto più conveniente e remunerativo produrle sul posto piuttosto che importarle, hanno pensato i proprietari della fabbrica coreana Noble. Adesso la loro azienda impiega stabilmente 50 persone e produce a ciclo continuo. Per non parlare degli artigiani, solo in Corea sono cento, che usano materiali come la ceramica e il legno.



(foto da internet)

A trasferire il know-how ci pensano i gruppi musicali del paese emiliano che regolarmente sono invitati a suonare là, con biglietti venduti con mesi di anticipo nei grandi teatri, un trattamento da superstar e interviste nei programmi televisivi più seguiti.

Un fenomeno nato quando tutto faceva pensare che il futuro dell’ocarina fosse l’oblio riservato alla civiltà contadina: le stime più recenti, invece, prevedono che tra tre anni nella sola Cina saranno 10 milioni i cultori dell’ocarina, una cifra che moltiplica per dieci il milione di oggi.

La storia dello strumento, tra l’altro, sembra modellata su quella del nostro Paese, i primi strumenti furono costruiti ai tempi dell’Unità, se ne invaghì Giuseppe Verdi, colpito dal suo Rigoletto interpretato da un ensemble di sole ocarine. Ora esiste perfino un corso di formazione al Conservatorio di Ferrara, e lo scorso anno una masterclass organizzata a Budrio ha laureato 20 insegnanti coreani, colmando in minima parte una lacuna che si poterbbe considerare anche un’ottima possibilità d’occupazione: nel Paese asiatico a 200 mila bambini tra gli 8 e i 14 manca un docente d’ocarina.

Numeri impressionanti, per un innamoramento che inizia a contagiare anche l'Occidente. In Gran Bretagna sempre più scuole dell’obbligo preferiscono l’ocarina al flauto dolce e in Brasile riscuote grande successo il lavoro dell’artigiano budriese Giorgio Pacchioni. Per evitare il proliferare di imitazioni che non corrispondono alle caratteristiche dell’originale, su iniziativa di Emiliano Bernagozzi, che anima il Gruppo ocarinistico budriese (tutti, ovviamente, musicisti amatoriali) pensano a un riconoscimento simile alla Doc, con un rigoroso disciplinare. Per evitare che, nei prossimi anni, all’estero possano credere che l’ocarina è uno strumento della tradizione taiwanese!

mercoledì 7 dicembre 2011

Misure anticrisi

(foto da internet)

Stando a quanto emerge da un'indagine della Coldiretti, quest’anno gli italiani, per lo shopping delle festività 2011, acquisteranno prodotti Made in Italy con l’obiettivo di sostenere la ripresa economica in un momento di crisi, senza tralasciare il riconoscimento per la qualità della produzione nazionale.


(foto da internet)

La spinta verso spese utili colpisce ormai anche i regali, che badano a ridurre gli sprechi: abbondano le ricette fai da te per serate speciali o con omaggi per gli amici che ricordano i sapori e i profumi della tradizione del territorio. E la prova ne è il boom degli acquisti direttamente dagli imprenditori agricoli in azienda o nei mercati e botteghe di Campagna Amica, dove è garantita genuinità, convenienza e una maggiore originalità rispetto alle offerte natalizie standardizzate dei punti vendita tradizionali. Infatti in molti casi è possibile prepararsi o farsi preparare i tipici cesti natalizi con prodotti inimitabili, caratteristici del territorio.
E sempre secondo l'indagine molti saranno gli italiani che andranno a caccia dell'offerta su internet, malgrado la maggior parte sia ancora restia all'acquisto on-line.


(foto da internet)

Altro punto di shopping alquanto gettonato saranno i tradizionali mercatini di Natale, luoghi trendy che uniscono un momento di svago alla possibilità di fare acquisti curiosi ad “originalià”' garantita' che permettono di sfuggire alle solite offerte standardizzate.

lunedì 5 dicembre 2011

C'era una volta...


(Andrea Satta. Foto da internet)

C'era una volta... un re, direte voi. Non esattamente. Nella favola in questione ci sono le mamme, ci sono i bambini e ci sono le fiabe che ogni lunedì vengono raccontate nell’ambulatorio di un dottore a Valmontone, nell'estrema periferia di Roma. Questa storia è stata pensata, scritta, e pubblicata da Andrea Satta articolista per l’Unità, il quale scrive e canta canzoni con i Têtes de Bois, ama andare in bicicletta e cura i bambini.

Andrea è un pediatra che ama profondamente i piccoli. Per guardarli negli occhi si siede per terra, invaghito da "quelli che spesso non arrivano a tre chili, fragili e con le manine rampicanti, che ruotano gli sguardi verso la luce". Ha pazienti di 35 paesi diversi, praticamente da tutto il mondo. Quando all’ambulatorio di Valmontone è arrivata una famiglia dall’Isola del Sud della Nuova Zelanda, hanno fatto una festa. Un altro giorno, una donna marocchina confessò ad Andrea: "Sono otto anni che sono qui ma non ho un’amica. Neppure Mohammed mio figlio ha amici. Le uniche persone che incontriamo le abbiamo conosciute qui da te, aspettando l’ora della visita".
E allora a questo "strano" dottore, che non porta il camice e culla i bambini con la febbre, è venuta l’idea di aprire l’ambulatorio al lunedì per incontrarsi. Ogni mamma porta un dolcetto, un piatto di cous-cous, quello che può. I bambini si mettono al centro e ascoltano. Oppure giocano tra loro. E ognuna di queste madri racconta una fiaba. Un po’ in italiano, un po’ in arabo mimando con le mani, oppure in rumeno, con le signore che aiutano chi è in Italia da poco tempo e si improvvisano traduttrici. O in brasiliano, pakistano, moldavo....

Questo pianeta di Andrea Satta è diventato un libro: si intitola Ci sarà una volta - Favole di mamme in ambulatorio (Infinito Edizioni, 130 pagine, 12 euro) con le illustrazioni belle e divertenti di Staino e due prefazioni: una di Dario Vergassola e un’altra (fiabesca) di Moni Ovadia che scrive: "Noi non sappiamo più raccontare, ma se con l’aiuto della fantasia dei nostri bimbi riafferriamo il bandolo del filo della narrazione, forse possiamo salvare la nostra comunità umana dai devastanti pericoli che incombono su di essa".


(foto da internet)


Sono quindi le mamme-narratrici, le quali, come i cantastorie d’Africa, tengono attiva la memoria più antica e intima di un popolo e la trasmettono agli altri. Storie che diventano grimaldelli garbati per rompere l’isolamento, il silenzio. Storie che arrivano da lontano ma contengono un insegnamento semplice. Storie-archetipo improbabili o mutuate da frammenti di storie vere dove maghi, streghe e bambini bravi parlano con pesci, gru, conigli o cammelli, uccellini o rane, leoni e bruchi. Un’esistenza parallela, animata e vivacissima, dove ognuno ha il suo posto e non ha paura di nulla, meno che mai degli altri.
All’ambulatorio di Valmontone non ci sono solo mamme che arrivano da luoghi lontani. Filomena, ad esempio, è nata a Bari. È sola anche lei: affetti distanti, catena di soccorso inesistente, la difficoltà di relazionarsi con una nuova comunità che ha un dialetto diverso, una mentalità differente. Per questo un lunedì si è presentata a dire la sua fiaba, quella che qualcuno le raccontava per addormentarsi da piccola. Scorrono le parole, si incrociano le storie. Ci sono i troll norvegesi di Tine e le pecorelle di Adriana, che arriva dalla Romania, c’è una fiaba scritta in urdu da Sharif che ha una moglie con il vestito colorato che si chiama Naheed e due piccolini: Ayesha e Zaheeb.

Il minimondo di Andrea Satta è così lieve e intenso che commuove e strappa sorrisi. E ha un suono cristallino, ritmato e saltellante. Il suono del canto del benvenuto. Perché, come dice il dottore che va in bici e suona con i Têtes de Bois, "conoscersi è la strada". Poi, il futuro viene da sé. E siccome questa è una bella storia d’amore i diritti d’autore di Ci sarà una volta sono destinati al Centro Pediatrico di Emergency per i bambini del campo profughi Mayo, in Sudan. Una bella storia. Con un lieto fine.
Meditate, gente, meditate...

venerdì 2 dicembre 2011

Gelato o ice cream?

(foto di Inma Marco)

Leggendo il titolo di questo post, a più di un lettore sarà venuto in mente: Che mania questa degli italiani di parlare usando la parola inglese invece dell'italiana. Ebbene no, siete completamente fuori strada!
Infatti non parleremo di fatti linguistici, bensì di "cose del palato".
Prima, però, vi sfidiamo a prendere un dizionario e cercare come si traduce gelato in inglese. Sicuramente la traduzione che vi apparirà sarà ice cream.


(foto di Inma Marco)

In realtà entrambi i termini sono presenti nella lingua italiana, ma con significati diversi: il termine gelato indica il gelato artigianale, mente l'ice cream indica il gelato industriale.

(foto di Inma Marco)


Badate bene, le differenze tra le due produzioni sono notevoli: il gelato artigianale utilizza prodotti senza conservanti né polveri, è meno grasso dell'ice cream, contiene meno aria e viene servito a temperatura più alta per garantire un maggiore sapore a contatto della lingua e, importante!, è considerevolmente meno calorico. È prodotto in piccole quantità, vendute direttamente al pubblico ed è fatto in un'ampia varietà di gusti e risulta molto cremoso al gusto. Invece, l'ice cream si caratterizza con elevate produzioni, ingredienti a lunga conservazione e pochi gusti.

(foto di Inma Marco)


Vi chiederete dove abbiamo imparato tutte queste cose? Venerdì scorso la Gelateria Veneta del Puerto di Sagunt ha aperto il laboratorio al dipartimento d'Italiano della EOI per spiegarci tutti i dettagli e farcì così addentrare nel gustoso mondo del gelato. Abbiamo anche avuto l'onore di assistere al processo di produzione del gelato per poi degustare una vaschetta squisita di gelato alla nocciola, (con le nocciole originali delle Langhe piemontesi). Semplicemente divino!

(foto di Inma Marco)

Cogliamo l'occasione per ringraziare di nuovo Maurizio e i lavoratori della gelateria Veneta del Puerto di Sagunt (Avenida del Mediterráneo, 61, e Avenida Fausto Caruana di fronte a Carrefour) che ci hanno accolto con estrema affabilità e cordialità e vi consigliamo, chi può, di provare questa delikatessen made in Italy.